Il poeta bolognese afferma che la forma più
pericolosa di totalitarismo è costituita dalla società di massa, la quale si
presenta come una democrazia ma, in realtà, impone un unico modello, che deve
essere valido per tutti
di Gabriele Rigoni
Pier
Paolo Pasolini è stato indubbiamente uno dei più grandi intellettuali del
secolo scorso e la sua genialità è insita nelle riflessioni che riguardano la
società e il suo futuro, trattandosi di pensieri assolutamente anomali per i
tempi in cui si trovava il poeta bolognese. Pasolini criticava infatti la
nascente società dei consumi e le abitudini borghesi, che stavano emergendo con
una prepotenza sempre maggiore. In un articolo scritto sul Corriere della Sera
il 9 dicembre del 1973 egli istituiva un parallelo tra il fascismo e la civiltà
dei consumi, sostenendo che quest’ultima avesse raggiunto lo scopo di
colonizzare fino in fondo le anime delle persone, mentre il consenso su cui
poggiava il regime fascista era, in molti casi, un’adesione superficiale a
un’ideale malato. Il fascismo, se non altro, aveva il pregio di manifestarsi
per quello che era: una dittatura sanguinaria, al cui vertice si trovava un
criminale senza scrupoli. La società dei consumi si presenta invece come una
forma di democrazia, quando in realtà essa impone un unico modello valido per
tutti gli esseri umani, i quali sono convinti di essere liberi, senza dunque
rendersi conto di avere perso la possibilità di scegliere. La conseguenza è
l’instaurazione di un totalitarismo perfetto, molto più efficiente rispetto ai
sistemi dittatoriali instauratisi in Europa e in Russia nella prima metà del
novecento.
A
distanza di quasi cinquant’anni le considerazioni di Pasolini risultano
maledettamente attuali. All’epoca in cui furono scritte, queste riflessioni non
poterono chiaramente essere comprese, dato che il modello che il poeta
bolognese criticava aveva apparentemente garantito, dopo la fine della seconda
guerra mondiale, una formidabile ripresa economica del nostro paese e un
benessere che coinvolgeva un numero sempre maggiore di persone. Il boom
economico italiano era in realtà perlopiù dovuto ai miliardi stanziati dagli
Stati Uniti attraverso il piano Marshall, che si rivelò fondamentale per permettere
al Belpaese di incominciare una ricostruzione e una rinascita dopo il terribile
ventennio fascista e gli orrori della guerra. Si fece largo quindi la
convinzione che il modello consumista fosse l’unico accettabile e che non
potesse essere messo in discussione per nessun motivo. Nei decenni successivi
all’articolo di Pasolini, il capitalismo ha incominciato a mostrare le spine e
ci si è accorti che in una società improntata su tali ideali aumentano le
diseguaglianze e vi è la totale anestetizzazione del pensiero critico. In
questo caso l’adesione al pensiero unico non viene ottenuta attraverso la forza
e la violenza, come avveniva con il fascismo, ma sono gli individui stessi che
aderiscono spontaneamente al totalitarismo, senza porsi domande sulla
possibilità che possano esistere modelli alternativi a quello consumistico,
comunemente accettato da tutti. Purtroppo la situazione sembra in continuo
peggioramento e l’avvento dei social network non è stato altro che una conferma
di ciò che Pasolini sosteneva. Dal punto di vista teorico, infatti, ciascuno di
noi è libero di non possedere uno smartphone e di non essere iscritto a nessun
social. Dal punto di vista pratico, invece, chi compie una scelta di questo
tipo si vede preclusa la possibilità di avere una qualsiasi forma di vita
sociale, venendo di fatto escluso dalla società civile. Lo scrittore bolognese
aveva quindi pienamente azzeccato le sue previsioni e, nonostante all’epoca non
fosse stato compreso, l’importanza di certe osservazioni risalta in modo
evidente rileggendo il suo articolo dopo tanti anni, con il lettore che si
rende conto di essere anch’esso all’interno di una forma di totalitarismo,
senza però avere la possibilità di fare qualcosa per tentare di uscirne.

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